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Monsignor Armido Gasparini,

nato a Lizzano in Belvedere il 19 agosto del 1913, morto ad Addis Abeba il 21 ottobre 2004, ha speso la sua vita in Eritrea e in Etiopia. Qui, nel 1979, fu nominato da Giovanni Paolo II  Vescovo di Awasa, capoluogo del Sidamo (Oromia).





L’articolo che segue, di Giacomo Marcacci e Paolo Piacenti, è apparso sul numero 5 della rivista di studi locali

“E…Viandare - Rugletto dei belvederiani”, 2005.

Le note sono a cura dei redattori del sito parrocchiale.

Armido

 “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita”                  1 Cor 13,1

E’ il capitolo 13 della Lettera di Paolo ai Corinzi che per associazione viene evocato ogni volta che proviamo a scrivere di S. E. Armido Gasparini. E’ un capitolo particolare, perché sostanzialmente in esso l’Apostolo delle genti tenta di dire che anche se una persona possiede tutte le doti del mondo, ma non possiede l’Agape, l’amore compassionevole, tutto gli è vano, tutto diventa inutile. 

Cosa dire allora di una persona che non solo possiede doni straordinari, ma che è anche dotata di una capacità di amare il prossimo sino a dedicargli tutta la sua vita, tutte le sue energie, tutte le sue speranze, istante per istante?

Nel 1986 ci recammo in Etiopia un po’ per caso, invitati da questo misterioso compaesano e spinti dall’insistenza di Don Racilio, che si adoperava affinché qualcuno di Lizzano si rendesse conto di chi fosse veramente Armido. Noi eravamo dei ragazzotti poco più che imberbi, figli del ricco Occidente, ed avevamo forse inteso quell’esperienza come un’occasione di avventura, più che come possibilità di crescita interiore.

Venimmo precipitati in un mondo molto crudo: l’Etiopia di quel periodo, sotto il regime dispotico di Menghistu, viveva la terribile piaga della “villacizzazione” (1), processo per il quale migliaia di persone venivano allontanate forzatamente dai territori d’origine, ricchi di oro e di caffè, e sistemate in appositi agglomerati urbani fatiscenti, distanti migliaia di chilometri, da dove, disperatamente, in massa cercavano di tornare a casa. Qui il lavoro dei Comboniani e dei Salesiani ci parve essere l’unico bastione di umanità che ostinatamente si opponeva alla barbarie.

Armido si ergeva come un vero capo che con indomita passione (allora era già ultrasettantenne) confermava e rinnovava le motivazioni, le energie e le speranze di tutti coloro che gli stavano accanto. Ci accolse con un caloroso abbraccio, e da subito utilizzò uno stile comunicativo estremamente confidenziale che ci mise davvero a nostro agio. Il nostro arrivo coincise con una serie di viaggi che Armido aveva programmato in tutte le più disparate regioni di quell’immenso territorio (circa un terzo dell’Italia) che è il Sidamo. Avemmo così la singolare occasione di essergli accanto in quest’esperienza pastorale che ci portò nel cuore del territorio africano, fino ai confini con la Somalia, quasi sempre con lui alla guida di una jeep, per centinaia e centinaia di chilometri su strade per lo più bianche o anche per piste improvvisate.

Mentre viaggiavamo, di solito ci illustrava la storia dell’Etiopia (fin dalle credenze mitiche , come quelle della Regina di Saba e del figlio Menelik)(2), oppure ci raccontava della parrocchia che ci accingevamo a visitare, descrivendoci con una fiducia che davvero ci sorprendeva, i vari sacerdoti, la loro storia, le difficoltà che si erano venute a creare, con una lettura psicologica delle relazioni estremamente profonda e accorata. Ci rendeva spesso partecipi delle sue riflessioni, delle strategie che avrebbe cercato di utilizzare, arrivando a chiederci anche il nostro parere su questioni davvero importanti. Per noi, poco più che adolescenti, era vivere una situazione straordinaria, nella quale un uomo eccezionale come lui ci riconosceva come interlocutori per le problematiche della sua diocesi.

Era uno straordinario conversatore. La sua cultura era enciclopedica e variava dalla storia alla storia delle religioni e alla storia dell’arte, dalla letteratura alla conoscenza delle lingue. Anni dopo, l’arcivescovo emerito di Kartoum, suo intimo amico, ci disse che Armido aveva il dono delle lingue, ed era proprio così. Inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, ebraico, aramaico, arabo antico e moderno, amarico, tigrino, gugi, ghede….Una sera provammo a chiedere quante lingue sapesse e ci rendemmo conto che queste superavano le trenta. Oltre, aggiungeva lui con orgoglio, al dialetto lizzanese, di cui conosceva bene l’idioma, anche se ammetteva di essere un po’ giù d’esercizio.

Per esprimere la straordinaria capacità di Armido, basti pensare che un giorno, durante un pranzo con delle autorità locali, lo sentimmo parlare in inglese, francese, arabo, tigrino, amarico e sidama, con la stessa semplicità con la quale noi si parla la lingua nativa. Un’altra volta arrivammo in una delle più sperdute parrocchie distante centinaia di chilometri da Awasa, capoluogo del Sidamo, chiamata Soddu-Abbala. In questo posto, molto umoristicamente (era dotato di un senso dello humour finissimo, estremamente piacevole e delicato) Armido ci aveva descritto la particolare convivenza tra un prete torinese e quattro suore siciliane. Arrivammo proprio per i festeggiamenti di Santa Rosalia, e mentre le suore facevano una festa smisurata al loro Vescovo, Armido ci disse che erano ormai tre anni che non si recava più in quel luogo, e che alla sera avrebbe dovuto aiutare il sacerdote torinese nella realizzazione della grammatica della lingua del posto. Assistemmo noi, stupiti, alla lezione di grammatica da parte di Armido, che era stato solo pochissime volte in quel territorio, e che insegnava a chi ormai viveva con quella popolazione da più di un anno. Armido ci disse che prima di fare proselitismo, erano importanti gli interventi di promozione umana a largo spettro, come l’ educazione scolastica, la lingua (per ogni diversa lingua aveva lui stesso curato un vocabolario), l’emancipazione femminile con l’istruzione ed il lavoro (Armido sosteneva che la donna è il cuore della famiglia, per cui se si emancipa la donna, si emancipa anche la famiglia), le cure sanitarie ed il sostentamento dei più poveri. “Dalle nostre opere riconosceranno chi siamo” ripeteva a giustificazione della sua visione prospettica.

“E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe”.

La fede di Armido era grande. Lui stesso, quarantenne, aveva trasformato il terreno arido e brullo attorno ad Awasa in un giardino lussureggiante di piante da frutto, di fiori e di erba rigogliosa, strappando quadrati di terreno fluviale e ripiantandolo tutto attorno alla Missione. Solo chi ha potuto ammirare la sua opera, apprezzandone le considerevoli dimensioni, può rendersi conto del ciclopico sforzo che essa deve essere costata. La sua fede aiutava poi la fede di un numero incredibile di persone, che lui aveva la cura di contattare e di seguire personalmente con brevi pensieri di augurio, o con lettere, dalle quali emergeva chiaramente come lui ricordasse davvero tutto di queste persone.

Ci raccontava che, i primi anni di missione in Etiopia, era solito segnarsi i minuti persi durante la giornata, e che se questi superavano il numero di dieci, chiedeva perdono al Signore. Era una persona che, come si suol dire, sapeva guardare avanti. Le sue opere nascevano confidando soprattutto nell’aiuto divino, che si traduceva principalmente nel contributo di moltissime comunità del cosiddetto Occidente ricco. Americani, tedeschi, canadesi, francesi, italiani, moltissime persone affidavano ad Armido di Soliva i loro contributi. Armido non teneva nulla per sé, ma destinava questi finanziamenti a progetti particolari. “Coi vostri soldi ho comprato il tale macchinario per l’ospedale”, o ancora, “Mi sono serviti per il progetto delle scuole”, oppure “Con anche la vostra offerta ho potuto pagare il depuratore della tal missione”. I suoi collaboratori, Sacerdoti o Confratelli, sentivano la forza della sua fede, e gli riconoscevano un primato straordinario.

Queste persone, che decidono di dedicare la propria vita a Dio e ai fratelli, scegliendo come territorio operativo la missione, sono solitamente persone eccezionali, dotate di grande generosità ma anche di personalità forte, al limite dell’insofferenza verso l’organizzazione gerarchica e le convenzioni, ed operano in elevate condizioni di stress, circondate da fame, disperazione, malattie e pericoli mortali. Spesso ci siamo trovati presenti a situazioni di tensione emotiva intensissima, nelle quali Armido si destreggiava con una disinvoltura disarmante. Tutto diventava risolvibile, tutto era riconducibile ad una soluzione, tutto poteva essere affrontato positivamente. Ci viene in mente, come se fosse ora, un indomito giovanissimo pretino bergamasco molto intemperante. Armido lo ascoltò con pazienza, anche quando i suoi toni espressivi arrivarono ad una soglia molto alta, poi lo interruppe dicendo che di questo ne avrebbero parlato l’indomani. Il pretino accettò riluttante la soluzione. Armido ci confidò che aveva deciso così perché sapeva che, sbollita la rabbia, il giovane sacerdote sarebbe stato disposto ad ascoltare. Era sicuro che il giorno dopo, il giovane prete l’avrebbe capito perché lo stimava moltissimo, anzi era uno dei suoi preferiti. In effetti, tutto poi si risolse per il meglio.

“La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.

Armido era una persona molto semplice. Viveva la sua condizione episcopale solamente in funzione dei vantaggi che gli potevano derivare in termini di aiuti per la sua gente. Lo vedevamo raggiante nelle misere capanne, mentre ringraziava per l’ospitalità di quella povera popolazione.

Una volta ci chiese se potevamo prestargli una camicia, perché eravamo arrivati in un posto dove c’erano delle autorità, e voleva far sentire loro il suo rispetto. Un’altra volta ci chiese se avevamo un crocifisso, perché aveva bisogno di qualcosa che ricordasse alla gente la sua dignità episcopale, e lui non se lo aspettava. Un giorno lo accompagnammo nella distribuzione dei pacchi, una delle attività per le quali ringraziava davvero i lizzanesi, e soprattutto l’opera di Dario Fioresi. In questi pacchi c’era un po’ di tutto: vestiario, coperte e cibo. Ci fece notare un vecchio lebbroso che stava distante e lo guardava. Il pacco più grande e fornito era per lui. Armido si premurò di portarlo personalmente al vecchio, pregandolo di accettare questo aiuto. Senza una parola il vecchio, con molta dignità, accettò e si allontanò con il pacco sotto il braccio e la stampella sotto l’altro. La lebbra aveva ormai intaccato gli arti, ed anche camminare era per lui ormai molto difficile. Armido ci spiegò che provava un affetto tutto particolare per questo vecchio mussulmano, così orgoglioso da non chiedere nulla, per il timore di tradire il suo Dio, e che spesso aveva cercato di aiutarlo, ma l’unica cosa che il vecchio accettava era il pacco dono. Armido ci disse che era molto ammirato della fede di questo vecchio, e che persone come lui gli avevano fatto pensare che Dio era unico, e che eravamo noi miseri uomini, nella nostra pochezza, a scontrarci ed a litigare in suo nome.

Doveva, nella sua vita, aver passato momenti davvero difficili. Durante l’assedio a Gondar (3), aveva visto andar distrutto quasi tutto il suo lavoro, ed era stato parecchie volte a rischio della vita, Dopo la guerra aveva dovuto varie volte ricominciare tutto da zero. Spesso ci diceva che non riusciva a prendere sonno per le preoccupazioni, per i debiti, per tutte le innumerevoli attività intraprese, per gli impegni in giro per il mondo. Alcuni anni dopo il nostro viaggio, scoppiarono molti moti rivoluzionari in tutto il paese(4), e la missione di Awasa fu spesso bersaglio di attacchi e di ricatti da parte dei ribelli. Il prestigio di Armido, dei Comboniani e dei Salesiani nella regione è però sempre riuscito a scongiurare il peggio, ed i missionari sono riusciti a transitare la loro opera anche attraverso i momenti più bui della storia etiope.

“La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, ciò che è imperfetto scomparirà”.

L’ultimo periodo della vita di Armido è stato davvero difficile. L’età avanzata aveva comportato il calo della vista , privandolo così del conforto della lettura e dello studio. Per tanti anni aveva dormito solo quattro ore a notte, dedicando le due ultime ore della giornata alla lettura e le prime due ore dopo il risveglio allo studio degli antichi scritti in aramaico antico , ebraico antico ed in copto. Tra le sue letture serali non mancava mai la Musola: la sfogliava con vero piacere e la considerava un legame affettivo, profondo e sincero, con la sua terra natìa. Ora, con la vista che si indeboliva sempre di più, si sentiva un po’ perso ma, aggiungeva subito, che se Dio aveva disposto così, per lui andava bene. “Sarà il mio Getsemani”, disse in uno degli ultimi nostri incontri.

“Quand’ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Diventato uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”.

L’ictus che lo aveva colpito aveva annebbiato la sua mente lucidissima, ed ultimamente faceva fatica a riconoscere le persone. Nondimeno era sempre gentilissimo e disponibile. Viene da pensare che servisse il suo Dio anche rappresentando lo specchio che si offusca, i miseri limiti umani, la perdita delle facoltà. Un giorno, in Etiopia, gli sentimmo fare una promessa. Durante una festa, disse alla gente che lo ascoltava che lui avrebbe voluto essere sepolto proprio nella loro terra. Questo fece commuovere tutti i presenti, i quali “sentivano” che ciò che veniva detto non era un discorso di propaganda o un esercizio retorico, ma davvero un desiderio che emergeva dal profondo del cuore.

Questa promessa l’ha mantenuta, e adesso un pezzo di Lizzano è sepolto là, in terra etiope.

Ci siamo spesso chiesti cosa vi fosse in quel pastorello lizzanese di così straordinario, di così unico da rappresentare uno degli incontri che possono segnare una vita per sempre. Era indubbiamente un uomo intelligentissimo, colto ed affascinante, era forte di carattere e di fede, ed aveva una carica energetica per la vita e per il futuro dell’umanità fuori dal comune. Ma se tutto ciò fosse stato indirizzato esclusivamente all’interesse personale, forse adesso non staremmo a scrivere di lui cercando le parole nei nostri ricordi, nei nostri sentimenti. I suoi risultati, i suoi successi, susciterebbero forse ammirazione o invidia, non commozione e rimpianto. I suoi indubbiamente numerosi talenti non li ha sepolti per paura di perderli, non li ha investiti per autocelebrarsi, ma li ha messi a disposizione di tutti, degli ultimi, dei più poveri nel mondo, con tanto amore.

“Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità”  1Cor 13, 13

 

 

 

(1)   Il colpo di stato militare del 12 ottobre 1974 aveva destituito l'ultimo imperatore dell'Etiopia, Hailé Selassié, al potere dal 1930. La nuova giunta militare guidata dal colonnello Menghistu Hailé Mariam, proclamò il 21 marzo 1975 la Repubblica, instaurò una dittatura marxista leninista, soffocando ogni opposizione nel sangue, nazionalizzò le banche, le compagnie assicurative e le industrie a capitale straniero e promosse una riforma agraria di stampo sovietico (la terra venne confiscata ai grandi latifondisti e ceduta a fattorie di stato; i contadini trasferiti in modo coercitivo da regioni rese improduttive da secoli di sfruttamento o ad alta densità e forte pressione demografica verso aree meno densamente popolate ma più fertili).  Accrebbe inoltre gli sforzi per sopprimere le spinte indipendentiste dell'Eritrea, scatenate dalla sua annessione all’Etiopia dopo che, da ex colonia italiana, era stata dichiarata regione autonoma federata con l’Etiopia nel 1950. La lotta armata,  di fronte alle difficoltà nella realizzazione della riforma agraria, alla profonda crisi economica, al diffondersi del malcontento e dell’opposizione al regime dispotico di Menghistu, si rafforzò ulteriormente provocando il collasso del regime. Nel 1990 due movimenti ribelli alleati, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (FRDPE, in cui confluì il più vecchio Fronte popolare di liberazione del Tigrè, o FPLT) e il Fronte popolare di liberazione dell'Eritrea (FPLE) si impossessarono delle province settentrionali e, nel maggio 1991, Menghistu fuggì nello Zimbabwe. Il nuovo governo guidato da Meles Zenawi, mise fine ad una guerra, che, durata 30 anni, aveva provocato  100 mila morti, 15 mila mutilati, oltre un milione di profughi, e, a seguito di un referendum, riconobbe l'indipendenza all'Eritrea (1993).

Nel 1995 fu promulgata una nuova Costituzione che trasformò il paese in una repubblica democratica federale; le elezioni parlamentari  videro la vittoria del FRDPE e la nomina di Meles Zenawi alla carica di premier, ruolo che ha svolto  fino a oggi. Nei sei anni successivi i due paesi mantennero relazioni pacifiche, ma nel 1998, per una lite ai confini, si riaccese un nuovo conflitto, conclusosi alla fine del 2000

 

(2) Per gli etiopi si tratta della storia che racconta la fondazione della dinastia che ha governata l'Etiopia per tremila anni fino alla deposizione nel 1974 dell'Imperatore Haile Selassie. Secondo la leggenda, la regina di Saba, avendo sentito parlare della grande saggezza di Re Salomone, si recò a Gerusalemme per imparare a governare con maggiore sapienza il suo popolo. Re Salomone, colpito dall'intelligenza e dall'avvenenza della regina, sarebbe ricorso ad uno stratagemma per ottenere l’amore della regina. Ad una cena le avrebbe detto: “Se questa notte prenderai qualcosa che mi appartiene, dovrai amarmi”. La regina certa di non voler rubare nulla andò a letto tranquilla ma nel cuore della notte si svegliò per la grande sete - il re aveva fatto preparare per la cena cibi molto speziati e saporiti - e bevve il bicchiere d’acqua che il re aveva fatto mettere accanto al letto. Il re, che era lì in attesa le avrebbe detto”Visto che hai preso la mia acqua hai perso la scommessa”. Dall’amore fra i due sarebbe nato Menelik, di sangue ebraico, il quale alla maggiore età fu nominato Sovrano dell'Etiopia da Re Salomone. Menelik ritornò quindi nel paese originario di sua madre, accompagnato dagli uomini più saggi di Israele. Ancora oggi gran parte delle credenze popolari dell’Etiopia sono basate su quella leggenda che assicurando l’origine quasi divina dell’impero etiopico ne fu per secoli motivo di orgoglio: il suo simbolo è il leone di Giuda, uno dei due stati in cui si divisero gli ebrei alla morte di Salomone: il regno di Giuda con capitale Gerusalemme a sud e il regno di Israele a nord con capitale Samaria. Dall’origine salomonica di Menelik, il capostipite delle dinastie etiopiche il popolo etiope si considererà un popolo eletto. La leggenda termina con Menelik diventato adulto che si reca a Gerusalemme, dove ruba le due tavole della legge, date da Dio a Mosè sul Monte Sinai, le fa trasportare in Etiopia dove tuttora si troverebbero nel Sancta Sanctorum della chiesa di Mariam Zion in Axum.

 

(3) Nel 1935 Mussolini aveva invaso l’Etiopia e travolto un impero che era indipendente da due millenni. La seconda guerra mondiale pose fine all’occupazione italiana: nei primi mesi del 1941 le truppe inglesi sconfissero gli italiani ed occuparono l’Etiopia anche se alcuni focolai di resistenza italiana si mantennero attivi a Gondar fino all'autunno del 1941: Il 30 novembre l’ultima piazzaforte dell’Africa orientale italiana cedette le armi agli inglesi. L’imperatore Haile Sellassie il 5 maggio del 1941 poté rientrare ad Addis Abeba.

 

(4) I moti rivoluzionari erano condotti dai movimenti separatisti dei diversi gruppi etnici nelle provincie del nord quanto in quelle del sud, lungo i confini con Eritrea , Sudan e Somalia. Tali movimenti sono un fenomeno costante nella storia dell’Etiopia, che dal 1994 è uno stato federale formato dall’unione di 9 stati definiti secondo criteri etnici.

Casella di testo: Gruppi etnici

Oromo: 40%
Amhara e Tigrini: 32%
Sidamo: 9%
Shankella: 6%
Somali: 6%
Afar: 4%
Gurage: 2%
altri: 1%

Per una lettura della storia d’Etiopia si può visitare il sito www.gruppomeki.org/etiopia.htm